Uranio sulle Orobie - La storia dell’uranio di val Vedello e dintorni

di Camillo Mario Pessina

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La mia prima ufficiale in quei di Scais

Il periodo fine estate 1975. L’auto era una Fiat 127 aziendale: una di quelle con la fascia gialla sulle portiere con il nero cane a sei zampe e la scritta Agip.

Aveva piovuto abbondantemente per giorni e noi provenienti da San Donato Milanese, arrivando  sulla piana di Agneda dopo aver superato il minuscolo abitato, trovammo una brutta sorpresa. Il torrente Caronno, che qui correva in un letto poco marcato, aveva inondato la piana, strada compresa, impedendoci di arrivare al sentiero che portava alla diga di Scais.

L’autore, in compagnia di un collega dell’Agip, il  dr. De B.A., era stato incaricato dalla propria società di eseguire un primo approccio logistico alle “Case di Scais”. Allo scrivente dispiaceva molto dover rientrare in sede senza disporre di quelle prime risposte, necessarie a pianificare studi  geologici più approfonditi in Val Vedello e nelle aree circostanti previsti per l’anno successivo. Il detrito mineralizzato rinvenuto sulla testata dell’anfiteatro glaciale era tutto quello che si sapeva e nessuno conosceva la reale  estensione del ”filone uranifero” che affiorava in superficie.

Decidemmo così di capire meglio l’ostacolo che avevamo davanti. Ci togliemmo entrambi scarpe e calzini, e, dopo aver arrotolato i pantaloni sino sopra le ginocchia ci avventurammo al guado. L’acqua ghiacciata ci fece rabbrividire ma non arretrare; continuammo pian piano ad avanzare, con i piedi nudi che cercavano un valido appoggio sull’incerto fondo sassoso. L’acqua era ormai arrivata alle ginocchia e la sua forza trattiva incominciava a renderci insicuri e dubbiosi sul continuare o meno. A metà del guado convenimmo che peggio di così non poteva essere, e piano, piano, sussultando ogni tanto per un ciottolo più puntuto degli altri, arrivammo finalmente dall’altra parte. Alla scena assisteva perplesso un tale Bonomi (Renzo) di Busteggia, che sulla piana d’ Agneda   teneva una stalla con delle mucche, incuriosito da quei due “matti” che non capiva bene cosa volessero e cosa sperassero di fare.

Il dilemma era grave: proseguire con l’auto tentando di passare o tornare indietro? Il rischio che il motore potesse abbandonarci in mezzo al guado causa l’acqua alta era forte. Abbandonare però lì l’auto con il materiale a bordo o peggio rinunciare alla “missione” mi infastidiva tremendamente. L’attraversamento di quest’ansa del Caronno mi sembrava fattibile  con una sola persona a bordo dell’auto; in fondo l’acqua non superava il ginocchio e dunque non sarebbe arrivata né all’alternatore né alle candele, e, se lo scappamento non veniva soffocato dall’acqua, e se si fosse proseguito senza interruzioni, l’inerzia stessa avrebbe impedito all’acqua di sollevare l’auto e portarla via. Il collega, più saggio di me, non voleva rischiare, e con un gesto plateale mi diede  le chiavi dell’auto dicendomi: ” a te! Onori ed oneri! ” e rimase sulla sponda opposta, munito di macchina fotografica i cui scatti mi avrebbero immortalato o…impallinato.


Con le chiavi dell’auto ritornai indietro, riguadando la turbolenta ansa del Caronno.

Nella mente mi risuonavano come un’ avvertimento le parole che ogni tanto il mio “capo” di allora - un geologo abruzzese, più anziano, il dr. Berardino Taddei -  soleva gridarmi quando  osavo un po’ più del solito per raccogliere qualche campione di roccia: “Pessina non faccia l’eroe”. Ma si sa, a  trent’anni una certa  dose di incoscienza non manca mai, e, abbastanza sicuro d’aver ponderato i pro ed i contro, facendo i debiti scongiuri, mi accinsi   ad attraversare quell’ansa turbinosa. Il Bonomi rimaneva a guardare.

Come la foto dimostra, la valutazione fu fortunosa quanto azzeccata. L’acqua pur arrivando al paraurti nel punto più profondo, non bagnava però l’alternatore, e, il tubo di scappamento riuscì comunque a funzionare. L’autista, seppure con il batticuore, passò con auto e carico, ed insieme al collega poté finalmente raggiungere il fondovalle, e salire  poi, zaini in spalla, lungo il tortuoso sentiero che portava alla diga.

Passammo la notte in una delle  case di Scais; la più grande di quelle in pietra, costruita quasi a picco, sul margine opposto la diga, là dove il Caronno regala le sue acque al lago. L’appartamento, al primo piano della casa, era dell’ingegner Messa - un grande appassionato di montagna - che ne concesse l’uso, perché il figlio, per combinazione, aveva sposato una nostra collega “geologa”. Le stanze, nel più puro stile montanaro, erano rivestite di legno. Il parquet a grandi liste di abete scricchiolava sonoramente sotto i nostri scarponi. Fu in una di queste stanze che - qualche tempo dopo - incontrai per la prima volta un uomo di statura media con  una ricurva  pipa, stretta in un candido, cordiale sorriso. Una folta barba  e  lunghi capelli neri  incorniciavano  un viso abbronzato in cui  risaltavano  intensi occhi azzurri. La guida alpina era Cosimo Zappelli.

 

 

 

 

Dalmine (Bg) - Maggio 2007                                            Camillo M. Pessina, geologo