Uranio sulle Orobie - La storia dell’uranio di val Vedello e dintorni

di Camillo Mario Pessina

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La mia prima volta in Valtellina

Una piccola premessa è necessaria per dare un senso  a quanto m'accingo a raccontare.

Mattei riteneva inderogabile il nucleare italiano per lo sviuppo economico del paese e nel 1956 creò - in ambito ENI - Agip Nucleare e successivamente Somiren nel 1959. A quest'ultima società si deve il ritrovamento del giacimento uranifero di Novazza (Bg).

In seguito alla guerra arabo-israeliana del Kippur ed alla conseguente crisi energetica del 1973, tutto il mondo si trovò a fare i conti con la propria dipendenza dal petrolio. L'Italia - come al solito in difficoltà - vara un nuovo piano energetico nazionale (PEN). E' prevista anche la ricerca di minerali uraniferi al fine di garantire il combustibile nucleare ai  reattori presenti nel paese. Fu così che nel 1973 Agip, su incarico dello Stato italiano, riorganizzò la ricerca dei minerali uraniferi sia in ambito nazionale che internazionale.

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Nel settembre del 1975, un Agusta Bell 204, un potente elicottero biturbina, noleggiato dall’Agip e pieno di strumentazioni necessarie a rilevare in volo la radioattività naturale dei monti sorvolati, ritrova - grazie a "vecchie" segnalazioni bibliografiche del C.N.E.N.(Comitato Nazionale per l'Energia Nucleare) valori di radioattività ambientale più alti del solito in un'impervia area montuosa posta a cavallo tra le provincie di Bergamo e Sondrio.

Agip decise allora di verificarne il reale significato a terra, inviando in elicottero, qualche giorno dopo, dalla Val Seriana - base operativa per la nota presenza della miniera uranifera di Novazza - un gruppo di studio, costituito da un geologo - lo scrivente - accompagnato da un prospettore toscano, il perito minerario B.A..

L’elicottero atterrò la mattina presto nella valle valtellinese del torrente Caronno, nella piana corrispondente alle omonime baite. Scendemmo come al solito, stando acquattati sotto le pale che giravano vorticosamente sopra le nostre teste in attesa che l’elicottero tornasse alla base. Mentre in lontananza il rombo dei potenti motori da duemila cavalli si perdeva tra le cime e le vallate, ci ritrovammo in un’ambiente completamente nuovo per noi. L’aria era frizzante, la rugiada aveva bagnato ogni cosa, dall’erba alle foglie degli alberi. Sulla testata della valle sovrastavano alte cime intervallate da grandi nevai. Lateralmente e di fronte a noi incombeva l’enorme piramide del Medasc con le sue pareti verticali. Tutte quelle cime mi intimorivano e mi spaventavano un pò. Pensai che per muoversi su rilievi così aspri occorrevano delle guide alpine. Mi consolai pensando che comunque questa sarebbe stata la mia prima ed ultima volta in questa parte delle Orobie. Mi aspettava il mio lavoro di rilevamento geologico in Val Seriana e il tracciamento di alcune gallerie d’"assaggio" in alcune rocce mineralizzate a uranio a Costa Magrera.

Una mappa topografica al 25.000 con sopra un cerchietto mostrava il nostro obiettivo, - non tanto vicino per la verità a dove l’elicottero ci aveva lasciato - in una valle laterale: la val Vedello. Decidemmo di evitare il giro del lago di Scais, più lungo. L’appuntamento con l’elicottero era previsto per le 15. Il tempo a disposizione non era molto e decidemmo di arrivarci attraverso il grande macereto che separa - attraverso una lunga lama di roccia - le pendici nord occidentali del Medasc da un piccolo anfiteatro glaciale posto ai piedi della Soliva. Per arrivare all’obiettivo  posto a quota 2100 m. c’era parecchio da scarpinare. Ci avviammo muniti oltre che di zaini con qualche panino anche di carte topografica e geologica, martelli da geologo, altimetro e bussola e alla cintura uno strumento francese di cinque chili, uno scintillometro, talmente sensibile da permetterci di valutare ogni piccola variazione della radioattività naturale presente in ogni luogo della crosta terrestre. Lo strumento, qui rilevava un "fondo " di 100 cps. (colpi per secondo).

Ragazzi quanto fu dura quella salita! Dopo avere attraversato il Caronno, sull’altro versante in ombra, ci aspettava una fitta ed umida “boschina” che intercalava un’alta erba, zuppa d’acqua. Ogni tanto qualche masso più grosso del solito, qualche forra o uno sbarramento impenetrabile di rami, ci costringeva a fare lunghi giri o addirittura a tornare indietro. In lontananza, sentivamo il rotolar di sassi e il fischio delle marmotte. Alle undici arrivammo sotto la lama occiosa che avevamo previsto di attraversare per entrare in val Vedello. Gli scarponi erano zuppi, i piedi erano bagnati come pure i pantaloni, imgsino alle ginocchia. Il fiato era piuttosto ansimante ed il morale non tanto alto. La lama di roccia che da lontano sembrava modesta ed abbordabile, da vicino, liscia e quasi senza appigli, sembrava un muro invalicabile. B.A. a quella vista si rifiutò di proseguire e volle tornare indietro; io decisi invece di tentare il passaggio restando d’accordo di ritrovarci al punto di incontro con l’elicottero. Da solo, piano piano, affrontai il ripido crinale gneissico - da dove, qualche anno dopo sarebbe sbucata una galleria - e come Dio volle passai dall’altra parte. Ero sul fianco destro della val Vedello, intorno a quota 2000 metri, proprio  sopra e di fronte alle  sottostanti baite Zocco. Il piccolo anfiteatro glaciale appena più a monte si restringeva contornato da pareti verticali . Alla base, l’azione di accumulo di antichi ghiacciai oramai del tutto scomparsi avevano creato cinture detritiche, montarozzi di ciottolame scuro e deposto isolati grandi massi.

Mentre cercavo di capire  l’assetto geologico della zona, il cicalino dello strumento mi richiamò alla realtà; la radioattività di fondo era raddoppiata! Solo la presenza di rocce uranifere poteva esserne la causa! Proseguii verso l’alto e l’aumento di fondo mi costrinse a cambiare scala allo strumento. Alcuni sassi neri attirarono la mia attenzione e provai misurarne la radioattività: 2000cps! Un’altro, 3000cps! Un’altro ancora, 10.000 cps! Poi un altro ancora ….erano tutti probabilmente mineralizzati a uranio. Entusiasta raccolsi cinque pezzi di questa roccia radioattiva e li misi nello zaino con l’intenzione di farli analizzare dal nostro attrezzato laboratorio di Colarete; dopotutto poteva esserci del torio invece che dell’uranio. Qualcuno più tardi mi chiese se il  mio zaino fosse foderato di piombo! L’anno dopo l’Agip decise di fare uno studio statistico - quantitativo del contenuto di uranio nel detrito mineralizzato in questo piccolo anfiteatro glaciale. Noi addetti ai lavori lo chiamavamo scherzosamente ”sassometria”. Ebbene qui si riscontrò che - dopo previa lavorazione di quel detrito roccioso - si sarebbero potute ottenere ben 80 tonnellate di ossidi di uranio a tenori industriali.

Dopo aver mangiato il panino e bevuta la bibita che avevo con me mi incamminai, in discesa questa volta, giù dal ripido pendio che sul fondo portava alle baite Cornascio. Da lì arrivai al lago di Scais per tornare nella media Val Caronno all’appuntamento con l’elicottero. Nel frattempo alte e dense nubi avevano coperto lo spartiacque con la Val Seriana. Il sentiero che percorreva le ripide sponde del lago di Scais  - tracciato nella roccia e  nelle coperture detritiche - offriva a monte una verde cortina di vegetazione macchiata dai rododendri e verso il basso l’incredibile turchese del lago. Là dove il Caronno si getta nel lago con una spumeggiante cascata, una passerella di cemento ne permette il passaggio e l’accesso al bel gruppo di case in pietra con tetto in lamiera. Nascoste in mezzo ad una fitta pineta erano abitate - come ebbi occasione di scoprire in seguito - nella bella stagione. Da qui, un’erto sentiero, salendo verso la piana di Caronno, snodandosi tra i pini, scopriva un alternarsi di ripide pareti rocciose, di torrentelli e di piane erbose. Arrivai in tempo per l’appuntamento.

Attendemmo l’arrivo dell’elicottero di cui ci pareva d’udire in lontananza il battito delle pale e il rombo del motore. Il Medasc era coperto di nuvole come del resto tutte le cime che coronavano il fondo della vallata. Facevamo gli scongiuri! Speravamo in continuazione! Sì! Ora sembra più vicino, ma poi…. inesorabilmente si allontanava. Dopo un’ora di vana attesa ci rendemmo conto di essere nei guai: non solo perché eravamo ancora bagnati, ma perché non sapevamo neppure da che parte avremmo dovuto andare a passare la notte. Di noi due, solo io avevo, per la mia solita pignola previdenza, portato il portafogli con un po’ di soldi e i documenti.

imgIl sole stava pian piano tramontando verso ovest. Non eravamo muniti di luci di emergenza e nemmeno potevamo contare sul vicino rifugio.

A Gromo sapevano che l’elicottero non era riuscito a passare ma non potevano contattarci;  a quei tempi i cellulari erano ancora fantascienza e non esisteva il collegamento radio che invece fu creato in seguito. Dovevamo contattare la base per rassicurarli, che tutto era ok., che non si preoccupassero, che in qualche modo ce la saremmo cavata. Dovevamo scendere, cercare di arrivare alla diga di Scais e da lì decidere! Ci mettemmo in cammino e, abbastanza rapidamente, costeggiando il lago, arrivammo alla diga e all’alloggiamento dei guardiani. Fu una doccia fredda! I guardiani non conoscendoci non brillarono in solidarietà, rifiutandoci anche il telefono con la scusa che non erano autorizzati. Ci dissero di arrivare, a piedi alla centrale di Vedello e lì avremmo potuto chiedere aiuto. Sic! Così, stanchi, un po’ umiliati e demoralizzati e sempre con i piedi bagnati, fummo costretti a riprendere zaini, campioni e strumentazione sulla schiena e riimboccare il sentiero verso il basso. Scoprimmo poi, dopo più di mezzora di rapida scarpinata con i polpacci doloranti, quanto fosse poco vicina la centrale di Vedello. Vi arrivammo ormai all’imbrunire; lunghe tubazioni d’acciaio vi confluivano da un ripido piano inclinato; si sentiva all’interno della centrale il rapido ronzare delle turbine. Anche qui purtroppo non riuscimmo a telefonare né a farci aiutare, l’unico suggerimento datoci fu quello di chiedere un passaggio al pulmino che trasportava al sottostante paese di Piateda gli operai, alla fine del loro turno di lavoro. Né io, né B.A. avevamo la più pallida idea di dove fosse Piateda, se c’era un albergo che potesse accoglierci in quelle condizioni. L’importante per il momento era ottenere il passaggio e scoprimmo così che il pulmino non era della Falck ma di un privato che faceva il trasporto per suo conto. Anche qui fu dura, perchè pareva proprio che di noi e dei nostri problemi non gliene fregasse alcunché ad alcuno. Solo con la promessa di cinquemila lire (non erano poche a quei tempi perché con quella cifra, scoprimmo poi, si poteva fare una lauta cena al ristorante Trippi di Sondrio) ottenemmo un passaggio. Come Dio volle, riuscimmo finalmente a sederci, in mezzo agli operai che ogni tanto ci davano una furtiva occhiata: forse il nostro odore non era dei migliori! E giù per una lunga sinuosa, ghiaiosa stradina intagliata nella roccia. Da un lato pareti verticali e dall’altro parapetti in metallo ci dividevano dalla profonda forra del torrente Venina che pareva senza fine.

Arrivati a Piateda e lasciati i lavoratori, l’autista si diresse verso Sondrio suggerendoci l’albergo Europa; quello posto lungo la sponda sinistra del torrente Mallero. Arrivammo quando ormai era buio. Pagato e ringraziato l’autista fu dura però ottenere da lui una ricevuta che ci diede su un pezzo di carta da taccuino! L’albergo ci accolse, anche cosi conciati, grazie al mio documento d’identità. “Deus Gratia”!


Dalmine (Bg)- Marzo 2007 Pessina Camillo M. (geologo)