Uranio sulle Orobie - La storia dell’uranio di val Vedello e dintorni

di Camillo Mario Pessina

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L’ing. Carmelo di Bella: chi trova un Amico trova un tesoro

L’Ing. Carmelo Di Bella: chi trova un Amico trova un tesoro.

 

Gli studi geologici e radiometrici compiuti in val Vedello nel 1976, convinsero l’Eni ad intraprendere nel 1977 l’esplorazione mineraria in profondità delle manifestazioni uranifere rinvenute in superficie in Val Vedello. L’ardita e rapida  realizzazione di una  strada che, dalla piana di Agneda raggiungeva il cantiere logistico in località la “Foppa”, ai piedi della Soliva e del Cavrin, fu eseguita dall’impresa Cariboni nei primi mesi del 1977. Nell’estate del 1977 erano già stati tracciati  i primi livelli di ricerca (gallerie al L2 ed al Livello 1) mentre i sondaggi eseguiti avevano dato risultati incoraggianti.

La realizzazione delle gallerie di ricerca mineraria - in questo caso su progetto del geologo -  veniva, per legge e per ovvii motivi professionali, demandata all’ingegnere minerario (il direttore lavori) che ne curava le modalità esecutive. B.M., un’ ingegnere minerario,  romano, neolaureato, come lo scrivente del resto, era stato nominato “direttore lavori”. Egli  avrebbe dovuto tenere stretti rapporti con la contrattista, esecutrice materiale dei lavori che era tenuta ad osservare le sue  richieste comunicate attraverso un “Giornale dei Lavori”e curare i rapporti con il competente Distretto Minerario. Doveva inoltre verificare la gestione delle risorse economiche necessarie all’ ”escavazione” delle gallerie, la puntuale e severa gestione della “santa barbara”, la sicurezza del personale operante nel cantiere tutto, la contabilità e la misurazione dei lavori, il rispetto dei tempi programmati, la gestione dei rapporti con la contrattista. Tutto questo lo faceva comunque grazie all’operato di diversi collaboratori come i periti minerari presenti.

B.M. era appena tornato da un periodo di “training” nelle miniere canadesi, profondamente scioccato dal trattamento che il management minerario locale adottava nei confronti dei giovani ingegneri minerari. Con il solito pragmatismo anglosassone (un conto è la teoria, un conto è la  pratica), le giovani “reclute”, prima di aver il diritto di prendere qualsiasi decisione, venivano letteralmente “sbattute”in galleria, stivaloni, tuta ed elmetto, a maneggiare martelli perforatori, a “borrare” cariche di dinamite sui fronti di avanzamento; a sperimentare insomma  le difficoltà, i rischi e le problematiche, intrinseche a questo genere di lavoro, insieme ai minatori.

L’uomo, promosso a “direttore lavori”, probabilmente sopravvalutando il ruolo che ricopriva, non esitava ad organizzare cene e pranzetti e, contrariamente ai comuni mortali, che tenevano i contatti con la sede di Milano con perigliose guide in auto sul vecchio tracciato stradale (non c’era la superstrada Lecco-Colico che fu inaugurata dopo il 1987), non temeva di servirsi dell’elicottero per raggiungere  gli uffici di San Donato Milanese.

Il guaio di siffatto approccio era che prescindeva lo scopo cui era stato destinato il mezzo, quale l’urgente  trasporto di eventuali infortunati in miniera o sui non facili monti, dove le squadre geologiche giornalmente lavoravano. Un bel giorno, lo scrivente, la guida alpina ed il prospettore, attesero invano l’elicottero precedentemente concordato, e si trovarono, all’imbrunire, abbandonati sulla cima del Rodes, perché il direttore   lavori era andato a San Donato Milanese in elicottero e lì vi si era attardato! Immaginatevi un rientro a piedi dal Rodes al  buio! Le proteste ed i commenti furono all’acido formico e, altre successive “incongruenze”, portarono all’arrivo di un nuovo direttore lavori.

L’ingegner Carmelo Di Bella, bolognese, era appena ritornato dalla Bolivia dove l’Eni stava cercando uranio sulle Ande. Carmelo con un folto paio di baffi e una folta capigliatura non era molto alto.La sua  parlata risentiva di una forte erre moscia. Era un’ accanito fumatore. Era sposato da poco con Antonella e papà di un biondo e ricciuto bambino. Antonella per sposarlo aveva abbandonato l’università a pochi esami dalla laurea, con grande cruccio per suo padre. Il papà di Carmelo invece, siciliano, sottufficiale dell’esercito in stanza nella città di Bologna, qui vi aveva conosciuto e sposato un’emiliana; la mamma di Carmelo.

 

Carmelo Di Bella

Carmelo, oltre che ai manicaretti che gli preparava la mamma, era appassionato al gioco del biliardo. Soffriva, purtroppo, di pressione sanguigna alta; “ipertensione essenziale”, come lui solitamente la chiamava. La sua pressione era costantemente alta e non c’era verso di regolarla. Ai frequenti mal di testa provvedeva con pastiglie di Saridon delle quali era sempre munito. L’uomo aveva tentato più volte di smettere di fumare. Tutte le provò: dai bocchini filtro in cui vi infilava le sigarette con filtro, ma, non sentendone troppo il gusto, finiva per fumare anche il filtro. I cassetti della sua scrivania abbondavano di ogni genere di disincentivi al fumo; vari tipi di caramelle, gomme americane, articoli di giornale e libri su come smettere di fumare. Approdò infine alle pipe e ai tabacchi dagli aromi più vari: il suo ufficio di San Giacomo di Teglio (i primi uffici Agip) e poi quello di Piateda, era perennemente offuscato da argentee nuvolette di fumo. Nulla da fare! Non riuscì mai a smettere di fumare! Anch’io come lui, anche se non proprio tanto quanto lui, che aveva le unghie delle dita colorate dalla nicotina, non scherzavo in fatto di fumo! Carmelo, poco dopo essere arrivato in Valtellina, si portò la famiglia e insieme la mia - anch’io avevo una giovane moglie ed un  bambino piccolo - cercammo casa che trovammo nella bella località di Teglio. Carmelo aveva affittato un appartamentino in mansarda, posta nelle immediate vicinanze della funivia che portava a Prato Valentino; io, abitavo poco più distante, verso la fine della strada.

Ci capitava a volte di incrociare un nostro “insolito” vicino; Felice Chiusano, il “pelato” del Quartetto Cetra, che frequentemente portava a spasso il suo bell'alano nero. Chiusano, uomo molto estroverso e cordiale, ci salutava sempre per primo.

La domenica capitava che Carmelo mi chiamasse dalla strada per invitarmi all’aperitivo delle undici, sorseggiato, in un bar della piazza di Teglio, durante la solita “infuocata” partita di biliardo, che vedeva frequentemente Carmelo perdente, dati i miei frequenti colpi di “c…”. Era solito dirmi in dialetto bolognese “Buson ed anche leder”. Con lui si lavorava bene perché mai faceva pesare il suo ruolo e mai, come succede talvolta tra  colleghi,  covava sentimenti di invidia nei confronti di questo o di quello. Era un uomo cui potevi confidare i tuoi problemi di vita e di lavoro, nella certezza che mai ti avrebbe “pugnalato alle spalle”. Era un uomo semplice e modesto e mai si sarebbe sognato di farsi vedere in elicottero a San Donato Milanese. Causa il trasferimento degli uffici Agip da San Giacomo di Teglio a Piateda, dopo circa un anno, lasciammo Teglio divenuta troppo lontana e scomoda per gli spostamenti giornalieri. La famiglia Di Bella si era trasferita in una villetta di Chiuro, se ben ricordo in Via Valeriana o la parallela appena sopra, molto prossima comunque al ristorante San Carlo ed  alla Statale 38 dello Stelvio. La pressione sanguigna continuava, però a rimanere alta come pure il numero delle sigarette; ai frequenti mal di testa Carmelo rispondeva con altrettante pastiglie di Saridon.

26 Aprile 1981; quella Domenica la ricorderò per tutta la vita. Giovanni Paolo II, papa Wojtyla, era in visita pastorale a Bergamo e a Sotto il Monte papa Giovanni XXIII. Io, quella Domenica ero rientrato a Bergamo, dove, per vari motivi vi avevo riportato la famiglia. Il tempo era incerto, tra il sole e la pioggia. Nel primo pomeriggio, il telefono di casa squilla, e, all’altro capo, G. Brunamonti, il pilota d’elicottero dell'EliLario, mi comunica con voce rotta dalla commozione che Carmelo era stato trovato morto ai piedi del letto nella sua casa di Chiuro. La moglie e il figlio in quei giorni erano In Emilia dai parenti! Che mi affrettassi a venire perché la sera dovevano giungere la mamma e la moglie di Carmelo, avvisate di un suo grave malore. Il povero Carmelo in realtà era già nella camera mortuaria del cimitero di Chiuro. Non mi rimase che riprendere la via della Valtellina. Piansi più volte lungo la strada, incredulo che a trentasei anni il mio miglior amico se ne fosse andato così! Scrosci di  pioggia mi accompagnarono lungo il percorso.

Quando arrivai a Chiuro, nel soggiorno della casa di Carmelo vi trovai diverse persone oltre a Brunamonti; fra queste, ricordo il dottor Berardino Taddei, responsabile Agip, il dr. Arrigo Guicciardi, medico condotto di Tresenda e medico-amico degli “agipponi”, Gianfranco Balgera, dei vini Balgera di Chiuro; tutti ammutoliti e con gli occhi lucidi. Giovanni mi spiegò che non vedendolo arrivare in ristorante a mezzogiorno dove avevano appuntamento, dopo aver invano telefonato, si era recato a casa trovando Carmelo morto. Era stato fulminato da un’ attacco cerebrale, mentre si stava alzando la mattina dal letto. Ai piedi un solo calzino!

Il Guicciardi aveva pronte alcune iniezioni di cardiotonici per mamma Di Bella che non più giovane soffriva di cuore da tempo. Imbruniva ormai e tutti eravamo inquieti e sulle spine per l’arrivo dei familiari di Carmelo: nessuno sapeva come raccontare la verità! Erano le sette, forse le otto di sera, quando un’auto si fermò nell’attiguo cortile: mamma Di Bella entrò per prima seguita da un’inebetita Antonella. Disse subito, ad alta voce, “dov’è mio figlio, fatemi vedere mio figlio …!”. Silenzio di tomba nella stanza - un silenzio imbarazzato e  così pesante che si poteva “tagliare con il coltello”- nessuno riuscì a dire una parola. La mamma di Carmelo venne allora verso di me, guardandomi dritto negli occhi e, forse, trovandovi la conferma ai suoi peggiori presentimenti  mi afferrò un braccio dicendo “fatemi vedere il letto di mio figlio!”. La accompagnai in una camera già riordinata, dove un letto rifatto non lasciava presagire nessuna tragedia. Vi s'inginocchiò a fianco, stendendovi il capo e le braccia, di traverso le candide lenzuola, accarezzandole, per gridare poi, improvvisamente, come se vi avesse letto un messaggio: “Mio figlio è morto, mio figlio è morto”. Con gli occhi colmi di lacrime, abbracciandola, dovetti dirle ”… sì, ebbene sì, Carmelo ci ha lasciati …..”

Non starò a raccontare,  per  rispettosa discrezione, i fatti che seguirono, le lacrime e le tristezze di tutti, sino il funerale che si svolse a Bologna, dove molti di noi erano presenti per l’ultimo saluto. Una cosa è certa! Da quel lontano 26 Aprile 1981, non toccai mai più una sigaretta e mai ne risentii il bisogno!

 

Dalmine(Bg)- Agosto  2007                                                                                                                                               Camillo Mario Pessina (geologo)