Uranio sulle Orobie - La storia dell’uranio di val Vedello e dintorni

di Camillo Mario Pessina

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Il mitico mulo dei fratelli Bonomi

Il mitico mulo dei fratelli Bonomi

Dopo la scoperta, in val Vedello nel settembre 1975 - in un piccolo anfiteatro glaciale  posto appena al di là della cresta del “Mutulù”(1) - di un  cumulo di neri detriti rocciosi decisamente radioattivi, si rendevano necessarie e urgenti delle analisi chimiche di  quei detriti. Era necessario valutare il significato della radioattività della roccia.

La  radioattività poteva essere causata non dall’uranio ma dal  torio, elemento in natura  tre volte più abbondante dell’uranio, ma che, contrariamente ad alcuni isotopi di quest’ultimo, più difficilmente  è fissile e quindi utilizzabile nei reattori nucleari. Se così fosse stato, la scoperta perdeva tutto il suo interesse! Le analisi chimiche richiedevano almeno un quintale di roccia mineralizzata. Per portarla a valle  si pensò di utilizzare un mulo per la sua proverbiale resistenza alla fatica, la sua capacità  di percorrere sentieri impervi sfidando senza paura i precipizi, e, non ultima,  la sua sensibilità e intelligenza. Gli alpini che col mulo hanno avuto una sorta di simbiosi lo sanno bene!

Taddei, capo geologo dell’Agip e mio capo, seppe che  in quei di Busteggia, due fratelli, Renzo e Pierino Bonomi - malgari da anni in   Agneda e in Scais, dove, con la buona stagione vi portavano le vacche a pascolare - possedevano un mulo che poteva soddisfare i nostri bisogni.

 

Da Busteggia alla val Vedello

Sul finire di settembre nella vecchia casa di Busteggia dei Bonomi, davanti una tazza di caffè ed un fiasco di vino, con tanta disponibilità da parte dei due fratelli, concordammo i dettagli.

Una settimana dopo, di buonora,  io e Taddei trovammo il  Renzo Bonomi ad attenderci sulla piana di Agneda con un  bel mulo, alto e forte e dal capiente basto. Ci mettemmo in marcia verso la diga di Scais. In mezzora, dopo aver costeggiato il lago, arrivammo alle baite-casera del  “ Curnasc ”. Alle baite - quasi dei ruderi - circondate da un sassoso anello morenico  intagliato dal Vedello, la giornata non era delle migliori.

Ci sedemmo a riprendere fiato. Lì, accomodato su una grossa pietra, osservavo i grandi massi, giganti monoliti piantati nella terra o annegati nel  detrito; in  parte rotolati da quelle tormentate pareti e ingombranti il modesto alpeggio. Il poco pascolo era ricco d’acqua che permeava la morena: la terra scura, grassa di humus  se ne imbeveva a sazietà  nutrendo una  copiosa vegetazione. Diafani, evanescenti immensi collari di bambagia grigia in continuo movimento ricoprivano le vette delle  sovrastanti cime. Brandelli nebbiosi galleggiavano nell'aria del fondovalle come lunghe mani vaporose, abbracciando alberi e rocce, circuendole in silenzio. Goccia a goccia l’acqua si depositava sui larici, sui rododendri, sui  verdi cespugli e sulle rigogliose erbe. Acqua che stillava, piano, piano, da infiniti punti per completarsi in piccole saette argentate, balenanti in mezzo al verde e alle scure rocce  in cascatelle gorgoglianti e canterine.

La voce di Taddei mi richiamò   bruscamente alla realtà. “Pessina, vada lei che è giovane, su, a campionare. Io resto ad attenderla qui!”. Mi venne da pensare che avrei voluto essere seduto comodo sulla poltrona di casa mia, invece avrei dovuto  affrontare l’ardua salita con il  Bonomi ed il suo mulo. Mi rassegnai caricandomi sulle spalle lo zaino con la strumentazione pesante parecchi chili. Sistemai l’altimetro alla quota di 1600 metri. Il sentiero che portava alla lunga lama del ”Mutulù” attraversando il torrente Vedello si snodava tortuoso tra ciuffi d’erba e una fastidiosa boschina - talvolta appena una traccia - si perdeva nella vegetazione. Davanti a me saliva lestamente il Bonomi che con il suo “dai Nino” incoraggiava  il mulo a superare difficili passaggi. Si saliva, si saliva in silenzio; con la fronte imperlata di sudore e la camicia fradicia sotto lo zaino. Tenevo  duro - non volevo sfigurare col mulo - zigzagando in mezzo un intricato sottobosco di arbusti. Sul fruscio dei nostri passi sullo spesso tappeto di  felci e rododendri prevaleva  talvolta il gorgogliare di rivoli d’acqua che apparendo  e scomparendo tra i sassi parevano quasi giocare  a rimpiattino. Sentivo l’ansimare del conducente e del mulo.

Il Bonomi era attento a non perdere la traccia del sentiero e a guidare il suo mulo su quel versante ripido. Ogni tanto mi voltavo indietro guardando verso il basso. Eravamo saliti parecchio e il costone dominava dall’alto una vasta porzione del territorio circostante; radi boschi ricoprivano i fianchi della montagna che scoscesa precipitava nella valle, dove invisibile scorreva sinuoso il corso d’acqua. Sbuffi di nuvole grigiastre tornavano a intervalli a nascondere il sole.

Arrivati al limitare di un grande macereto - il fronte di un vecchio ghiacciaio - comparve la roccia viva debordante ricche venute d’acqua. L’antica lima ghiacciata l’aveva scarnificata, montonandola e  rendendola liscia e pulita come un osso.

Quota 1950 metri. Ci affacciammo  finalmente sull’ampio anfiteatro sassoso, chiuso a monte da una cerchia di ripide pareti, il  piede nascosto in un grande nevaio. In quel punto, la costa del ”Mutulù” diventava un costolone roccioso la cui parte alta - affilata  come una lama - separava la val Vedello da quella di Caronno. Verso l’alto, al limitar di alte pareti verticali, un monolito di pietra - gigantesco mohai - sorvegliava la bocchetta che in quel punto permetteva il passaggio tra le due valli.

Ai  piedi  della costa del ”Mutulù”, un ripido pendio erboso portava la zigzagante traccia del  sentiero, la cui trama si confondeva sino a perdersi tra i massi verso l’alto, dove l’anfiteatro si restringeva, colmo di grandi frantumi  rocciosi accavallati come onde in un mare in tempesta. Ancora un centinaio di metri di salita e saremmo arrivati alla meta.

Ci concedemmo una sosta prima di  iniziare a riempire il basto del Nino con le nere rocce mineralizzate presenti nel detrito. Raccolsi blocchi di diversi chili che il Bonomi distribuì bene, assestando il carico in maniera uguale nelle due capienti tasche, mettendone un po’ di più dietro e meno davanti, cosicché il mulo non rischiasse di cadere. Poi di nuovo - dopo uno sguardo di intesa - giù in discesa, anche lei faticosa perché la salita di prima ci aveva allentato i riflessi e stancate le ginocchia.

 

L’intelligenza del Nino

Scendere da quelle balze e muoversi in quell’instabile macereto, dove grandi e piccoli massi e un infido ghiaino si muovevano sotto i piedi  fu difficile. Da dietro e dall’alto osservavo i due.

Il mulo, carico, in discesa camminava adagio e guardava dove metteva i piedi. Il carico lo spingeva sul collo minacciando di farlo cadere. A volte era irrequieto. Era da capire! In discesa con quel peso e quelle pendenze! Il Bonomi però con frequenti “bravo Nino, dai Nino!”, lo incitava e lo tranquillizzava; con la briglia lo teneva e lo guidava.

Continuavamo a scendere. L’erba umida a volte mi faceva  scivolare. Gli zoccoli ferrati del mulo - quasi ad ancorarsi - percuotevano  la  roccia o segnavano il morbido terreno. Rimasi colpito dell’intelligenza del Nino. Ad un tratto si presentò un gradino più alto del solito. Il mulo si fermò, un attimo, incerto. Poi si abbassò sulle zampe posteriori, spostando all’indietro il baricentro del carico per evitare di rotolare a valle e proseguì. Rimasi colpito dall’intelligenza e dalla determinazione di quella “bestia”. Non conoscevo la bravura dei muli in questi frangenti.

Taddei ci attendeva  al “ Curnasc ”, ai piedi di un’enorme masso coperto di muschi che limitava un  vecchio rudere con il tetto in lamiera. “Osteria! Meno male che siete tornati, incominciavo a preoccuparmi!”.

 

L’ultimo sacrificio

Mi capitava sovente di incontrare sulla piana di Agneda o in quei del “Curnasc”  i due fratelli Bonomi. Una volta il Pierino  insistette  per farmi sostare presso la sua stalla in Agneda. “n bicéer de turbulù? Npòo d lacc' mul iüüt ilò a latu? Al béevi ul làcc bèl frèšc cal fa bùu!".

Io svicolavo: il latte crudo non mi attirava più di tanto! Capivo che era buon  latte di montagna ma non mi fidavo troppo del mio stomaco da cittadino. Ma di fronte alla gentilezza  e all’ospitale insistenza di quel “bonomo”, alla fine accettai.

Nella stalla, dentro il secchio, un latte cremoso, quasi vivo, vi aveva deposto uno spesso strato di panna. Me ne offri un mestolo pieno che bevvi timoroso sperando di digerirlo senza troppi problemi. Scambiammo quattro chiacchiere  e poi - chissà perché - gli chiesi. Dov’è il mulo, il Nino?

Il Pierino mi guardò, tra il sornione ed il meravigliato: “l’éera vegnüüt vécc! Ma fàcc'trè lügàneghi!". Fui scioccato dall’affermazione, non lo detti a vedere, ma ci rimasi malissimo!  Povero Nino! Talvolta l’uomo spinto dalla povertà e da una fame atavica, endemica e perenne, condizionato da antichi retaggi  non conosce né pietà né riconoscenza!

I due fratelli sono deceduti diversi anni fa - ma questo è il destino degli uomini - : con loro se ne sono andati altri pezzi della storia della montagna, della storia  di Piateda e degli “Uomini dell’uranio di val Vedello”. Ricordiamoli!


Dalmine(Bg) - agosto 2009                                               Pessina Camillo M. (geologo)

 

Riferimenti

(1). Pessina Camillo M. (2007). La storia degli “Uomini dell’uranio” di  val Vedello. Parte  prima. All’ombra del Rodes”- trimestrale  edito a cura della Biblioteca Civica di Piateda (So).